"C'è bisogno di una nuova cultura anche nella coltivazione, sappiamo ormai che le coltivazioni intensive provocano solo danni all'ambiente che ci costeranno care, sia in ambito economico che morale c'è bisogno di una nuova coscienza agricola del ventunesimo secolo."
Il Giardino di Zerdesht.
Quale deve essere il giusto atteggiamento conoscitivo nei confronti della natura?
di Francesco Lamendola - 07/04/2015Fonte: Arianna editrice
Oggi
si fa un gran parlare della natura, dell’ecologia, del ripristino di un
autentico rapporto fra uomo e ambiente, fra uomo e animali, fra uomo e
natura; se ne parla anche troppo, e sovente a sproposito, perché non
viene chiarito in via preliminare che cosa sia la natura per noi, in
quale modo la possiamo conoscere e, di conseguenza, quale sia il giusto
atteggiamento conoscitivo che dobbiamo assumere verso di essa.
Si
dice e si ripete, per esempio, che il disastro ecologico attuale è
stato provocato dal fatto che l’uomo si è allontanato dalla natura, che
si è dimenticato di essere parte della natura, il che è una mezza
verità; l’altra mezza consiste nel fatto che il disastro ecologico è
stato provocato anche dal fatto che l’uomo si è dimenticato di essere
uomo, cioè creatura spirituale, ragionevole e dotata di libero arbitrio,
per abbandonarsi ai suoi istinti inferiori, e specialmente all’istinto
del possesso avido e sfrenato: vale a dire che egli è stato troppo
indulgente con la propria parte naturale e troppo poco attento ed
esigente circa la sua parte ragionevole e morale.
D’altra
parte, è chiaro che l’uomo non può porsi di fronte alla natura, così
come non può porsi di fronte ad alcunché, senza porsi, preliminarmente,
dinnanzi a se stesso. Se si pensa che l’uomo sia solo e unicamente
natura, allora egli non potrebbe avere alcun atteggiamento verso di
essa, perché l’occhio che guarda non potrà mai vedere se stesso, ma
sempre e solo degli oggetti che stanno fuori di lui (e sia pure la sua
immagine riflessa in uno specchio, che non è propriamente l’occhio, ma,
appunto, solo una immagine dell’occhio). Ora, il naturalismo largamente
diffuso nella cultura odierna, non di rado inconsapevole proprio nel suo
darsi per scontato, presuppone che l’uomo percepisca se stesso non come
altro dalla natura, ma come parte della natura. Questa, però, sarebbe
una contraddizione in termini: se così fosse, l’uomo non penserebbe
niente della natura, così come non penserebbe niente di se stesso:
sarebbe un essere puramente istintivo. Nella misura in cui pensa, si
stupisce e domanda, l’uomo manifesta la sua essenza originaria, che è
sovra-naturale: nella misura in cui s’interroga, egli si trascende, e,
trascendendosi, si pone come altro dalla natura, pur se dalla natura
egli proviene e pur se, per un aspetto, ne fa tuttavia parte.
L’uomo,
dunque, fa parte della natura, ma non è, semplicemente, natura: e tutte
le filosofie che vorrebbero restaurare il suo presunto stato naturale
originario, non tengono conto di questa semplice verità: che l’uomo, da
quando è uomo, non è più natura, non è più solo natura, ma è divenuto
qualcos’altro, qualcosa che riflette e s’interroga e, pertanto, si pone
rispetto alla natura come un soggetto rispetto ad un oggetto. E questo
vale per chiunque sappia ragionare, compresi gli evoluzionisti e, in
generale, tutti coloro i quali hanno una concezione materialistica
dell’uomo e meccanicistica della natura, i quali tanto amano insistere
sulla “istintualità” e sulla “naturalità” originarie dell’uomo,
dimenticando che di un tale uomo, se è mai esistito, nulla possiamo
dire, perché l’uomo che conosciamo è quello che si è emancipato dal puro
istinto e che si è proteso al di sopra della sua condizione naturale,
chiedendosi quale sia il significato del tutto e quale il suo destino
finale: l’uomo sociale e culturale, dunque, non l’uomo naturale.
Sarebbe
del pari sbagliato circoscrivere l’essenza della specificità umana alla
ragione e alla volontà. Nell’uomo è un altro fattore originario,
perfino anteriore al pensiero e alla volontà: la capacità di stupirsi
davanti alle cose e di provare inquietudine per il mistero del mondo e
della sua stessa vita. Tutto questo è espressione di una attitudine
contemplativa: prima che ansioso di manipolare le cose, l’uomo è
suscettibile di ammirarle e di meravigliarsene, ponendosi, di fronte ad
esse, in un atteggiamento assolutamente disinteressato e di pura
ammirazione, cioè, appunto, contemplativo. L’uomo “primitivo”, infatti, è
artista in senso eminente: e basta osservare le incisioni e le pitture
rupestri, per non parlare dei misteriosi complessi megalitici sparsi in
tutto il mondo, per rendersi conto che, per lui, la cosa più importante,
oltre ad assicurare la propria sopravvivenza, era stabilire un rapporto
armonioso con il mondo, facendo leva sul senso estetico e sul senso
religioso, l’uno strettamente legato all’altro.
Colui
che ha decorato, con mano sicura e felicissima, le pareti delle grotte
di Altamira e di Lascaux, in Europa; colui che ha impresso, innumerevoli
volte, lo stampo delle proprie mani, in svariati colori, contro lo
sfondo scuro della roccia, nel Cañadon de Las Pinturas, laggiù, in
Patagonia, agli estremi confini del mondo: ebbene, costui non poteva
essere una creatura puramente istintuale e naturale, e nemmeno un essere
puramente razionale e volitivo. Era una creatura assetata di bellezza e
di verità, che esprimeva la sua immensa meraviglia e il suo ardente
bisogno di comunione con le cose, attingendo a un senso estetico che
veniva dalla sua dimensione più intima e profonda, anteriore alla logica
strumentale e a qualunque attitudine calcolante.
Ci
sembrano degne di interesse le riflessioni svolte in proposito da Rocco
Buttiglione nel suo libro «Il problema politico dei cattolici. Dottrina
sociale e modernità» (Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1993), pp.
184-6):
«Ciò che noi chiamiamo natura è un oggetto complesso.
Innanzitutto la natura è data a priori. E per riconoscere come tale ciò che è dato a priori, dobbiamo assumere un ATTEGGIAMENTO CONTEMPLATIVO. Dobbiamo lasciar essere le cose così come sono; dobbiamo diventare sensibili al loro SIGNIFICATO e al loro LINGUAGGIO.
L’arte vede nella natura i valori naturali che bisogna tutelare. Ci aiuta così a comprendere LA NATURA COME LINGUAGGIO e
a interpretare il suo significato. Già in questo momento contemplativo è
compresa, allora, una attività creativa dell’uomo come soggetto. La
contemplazione è un comprendere attraverso cui la verità della natura
viene estratta dalla natura stessa e messa in evidenza.
Si
impone l’affermazione secondo cui la natura intesa come linguaggio
rimanda a un soggetto che ha tracciato questi segni. L’atteggiamento
autenticamente artistico è il più affine a quello dei santi e degli uomini religiosi.
In secondo luogo la natura è UN COMPITO ANCORA DA REALIZZARE.
Il mondo inteso come segno richiede una risposta. La bellezza percepita
nella natura ha bisogno dell’aiuto dell’uomo per conservarsi. Il mondo è
incompiuto. È nostro dovere e “responsabilità” porta tarlo a
compimento. Attraverso il LAVORO L’UOMO CREA IL MONDO, MA NON IN MODO ARBITRARIO,
bensì rispettando le forze interne che sono insite negli oggetti della
natura fin dal principio. La sua produzione non è un creare, ma un
collaborare, che può essere compito solo nel dialogo con il primo dono
dell’essere.
Se intendiamo la natura e l’uomo in questo modo, cambia anche la nostra concezione di scienza e di tecnica.
La
scienza, allora, viene intesa nella sua essenza come concetto astratto.
Essa non svela la verità sulla natura, ma fa luce sui processi naturali
singoli, a sé stanti. Al fine di comprenderli meglio, essi vengono
isolati, astratti dal rapporto vivo con il tutto. Le scienze della
natura non ci forniscono la natura o la realtà così come sono. Non ciò
che è reale viene osservato dalle scienze della natura.
Esse compiono una particolare astrazione, forniscono un particolare livello di astrazione della realtà.
Il
punto di riferimento della nostra comprensione della natura non può
essere il mondo che le scienze della natura ci presentano, bensì il
mondo così come si dà nella conoscenza diretta. Le scienze della natura
possono, sì, perfezionare e ampliare la comprensione del mondo che è
data nella conoscenza diretta, ma non la possono sostituire. Sulla
conoscenza diretta si basa piuttosto una comprensione
artistico-religiosa della natura. Essa ci manifesta per così dire le
forze positive degli oggetti della natura e ci spinge a portarli a
compimento. Tuttavia al tempo stesso non si può accantonare il fatto che
l’uomo ha anche un interesse immediato allo sfruttamento della natura.
Al fine di soddisfare i propri bisogni, l’uomo usa gli oggetti della
natura per i propri scopi.
Compito della TECNOLOGIA è di mediare tra BISOGNI UMANI, OGGETTI DELLA NATURA E RISPETTO CONTEMPLATIVO DEI VALORI DELLA NATURA
per assicurare contemporaneamente l’autoconservazione dell’uomo e
quella della natura. Ciò è possibile solo quando la contemplazione viene
riconosciuta e vissuta anch’essa come un bisogno umano, o addirittura
come il più alto dei bisogni umani. L’uomo non vuole soltanto esistere,
ma anche vivere una vita umana alla luce del vero, del bello e del bene.
Sotto certi aspetti l’intero problema ecologico e il problema della
nostra civiltà nascono da un equivoco riguardo alla natura dell’uomo.
Sulla base di tale equivoco si è sviluppata una tecnica unilaterale, che
ha perduto il rapporto con la contemplazione.
Oggi
la civiltà moderna è in crisi nella misura in cui è costruita su una
concezione prometeica del mondo e dell’uomo. L’uomo non vuole
riconoscere nel mondo alcun valore, bensì vuole agire come se fosse egli
stesso a conferire valore alle cose. L’uomo può certamente conferire
valore alle cose, ma solo se prima riconosce il vero valore delle cose.
Egli non costituisce il valore delle cose, ma contribuisce a
costituirlo. Il fondamento rimane l’origine in una creazione divina.
La
concezione prometeica della soggettività umana che ha segnato con la
propria impronta la filosofia europea, e in particolare quella tedesca
da Kant a Marx, è fallita. Non dobbiamo, però, ritornare a un’idea di
mondo, come la auspicava Heidegger sulla scorta dei presocratici, che fa
valere la natura in quanto natura e nega completamente l’intervento
dell’uomo nella costituzione della realtà. Dobbiamo piuttosto
riconcepire il RAPPORTO RECIPROCO DI OGGETTIVITÀ E SOGGETTIVITÀ NELL’AGIRE UMANO.
L’uomo è autore di una SECONDA COSTITUZIONE DELLA REALTÀ, che non si fonda su una materia completamente indefinita,della quale si possa disporre secondo il proprio arbitrio.
Egli
costruisce piuttosto su una forma del mondo già presente, ma ancora
incompiuta. Lavorare significa collaborare a costituire e a creare, in
un dialogo indispensabile con il primo soggetto della costituzione e
della creazione del mondo, che tutte le religioni chiamano Dio. Un
lavoro così concepito deve ricuperare il suo pieno splendore come azione
etica dell’uomo, che egli intraprende con tutto il suo essere, con le
sue forze e i suoi bisogni fisici, come con la sua contemplazione e la sua capacità di trascendenza. Solo
l’obbedienza alla prima creazione può garantire che l’azione umana
porti la natura al suo compimento e non alla sua definitiva distruzione e
annientamento.»
Riassumendo.
La tecnica esprime una attitudine legittima dell’uomo, ma non può
essere assolutizzata, né, soprattutto, sciolta dal problema della sua
destinazione: che é un problema etico, cioè un problema di valori. E la
stessa cosa vale per il rapporto fra l’uomo e la natura: il fatto che
egli si serva di essa esprime una istanza legittima, senza la quale
l’uomo non potrebbe sussistere o, quanto meno, non potrebbe sussistere
nella sua dimensione culturale e spirituale: dovrebbe regredire a uno
stato animalesco e irriflesso. Ma l’uomo, lo abbiamo visto, è una
creatura riflessa: ha mangiato il frutto proibito, ha scelto il mondo
dei valori e voltato le spalle a quello del puro istinto; indietro non
può tornare. Gli rimane solo la scelta se vuole restare fedele a se
stesso in armonia con le cose e con la natura, oppure in guerra contro
di esse. Se sceglie questa seconda strada, finisce per entrare in guerra
contro se stesso, perché egli è natura divenuta consapevole e
auto-trascesa, ma sempre continuando a far parte, per un verso, della
natura medesima. Non è un angelo: non è una creatura puramente
spirituale. Può scegliere se diventare un diavolo, stringendo un patto
faustiano con le forze che soddisfano la sua “cupiditas”, che è
espressione del matrimonio fra la sua natura inferiore e la tecnica, da
cui ricava la vertigine dell’onnipotenza.
L’uomo
prometeico che sfida gli dèi, l’uomo faustiano che vende la propria
anima al Diavolo, sono la manifestazione di un corto circuito avvenuto
nella condizione umana, allorché l’uomo perde il proprio orientamento
spirituale, la propria capacità contemplativa, e si fa servo delle
proprie passioni distruttive, prima fra tute la brama di possesso, che
si esplicita come manipolazione illimitata delle cose, dei suoi simili –
e, da ultimo, anche di se stesso.
C’è
un solo modo per evitare questo destino: ritrovare le proprie radici
spirituali, ritornare ad essere creatura che ammira, ama e ringrazia il
suo creatore: l’Essere da cui proviene ed al quale ritornerà...